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Rapporti umani

Donne che amano troppo… quando una relazione d’amore fa soffrire

15 Settembre 2020 | a cura di Alessandro Rotondo Laura Marchi

La dipendenza affettiva è un disturbo comportamentale fonte di grandi sofferenze, anche se è meno conosciuto delle dipendenze da alcol e altre droghe.

Questo fenomeno, tipicamente o prevalentemente femminile, rivela un’estrema difficoltà a chiudere le relazioni, accompagnato da una tendenza ad amare troppo, a restare inchiodate in rapporti insoddisfacenti, che non rispondono ai nostri bisogni di amore, cura e attenzione.

 

Il titolo di questo articolo cita il famosissimo libro di Robin Norwood (“The sense of being stared at”,1985), psicoterapeuta specializzata in dipendenze.

I fattori storico-culturali sono importanti in queste situazioni. La donna è stata confinata per millenni nel ruolo di madre, esclusivamente dedicata alla cura dei figli e della casa. Di generazione in generazione, i messaggi più o meno espliciti, vedono la donna come debole, bisognosa di protezione (da parte della figura maschile), fragile, paurosa, dipendente. Per quanto oggi molti di questi aspetti siano stati superati, altri sono ormai entrati a far parte dell’inconscio femminile e condizionano il modo in cui la donna vive la relazione affettiva con un uomo.

Quando si ama troppo?

Quando l’amore da esperienza appagante, di gioia e di pienezza si trasforma in un qualcosa che ci fa soffrire, ci ossessiona e ci impedisce di vivere la nostra vita? Quando essere innamorate significa soffrire, allora stiamo amando troppo; quando sistematicamente tendiamo a giustificare l’indifferenza, il malumore, il cattivo comportamento o i tradimenti del partner, stiamo amando troppo; quando tendiamo ad attribuirci la colpa di non essere abbastanza attraenti o affettuose di fronte a comportamenti del partner che ci hanno offese e ferite, allora stiamo amando troppo.

Cosa c’è dietro questo attaccamento morboso a qualcuno che non può o non è disposto a darci l’amore che con tanta fatica e dolore proviamo a rincorrere? La Norwood ritiene che ci sia la paura, paura di restare sole, paura di non essere sufficientemente amabili, paura di essere ignorate o abbandonate. Il modo di porsi in relazione di una tipica donna che “ama troppo” è quello di controllare l’altro rendendosi assolutamente necessaria, la convinzione è che concentrandosi sui bisogni dell’altro e facendo di tutto per compiacerlo, l’altro non potrà più fare a meno di lei. È importante mettere in evidenza come, accanto ad una donna che necessita di qualcuno che abbia bisogno di lei, c’è sempre un uomo che cerca qualcuno che accetti di essere responsabile per lui, in un gioco o “danza relazionale” dove entrambe le parti partecipano con ruoli, bisogni, paure specifiche.

"Se un individuo è capace di amare positivamente, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri non ama affatto"

ERICH FROMM, L’arte di amare

Da dove nasce questa paura?

La paura si origina dall’insicurezza personale, da una sfiducia nella propria capacità di essere amata e accettata per quello che è, che la porta a ricercare all’esterno (nell’uomo) conferme che non è in grado di dare a se stessa. Ovviamente tale ciclo interpersonale si autoalimenta in una dinamica senza soluzione, perché più la donna si sacrifica e lotta per salvaguardare il rapporto con un uomo indisponibile, distante, maltrattante, che non ricambia l’amore, più lui continuerà a perpetuare distanza, non amore, indifferenza, dando vita ad una rigida cristallizzazione di ruoli.

Quali sono i fattori che scatenano queste paure?

Partendo dal presupposto che non esiste disturbo in ambito psicologico/psichiatrico determinato da un unico fattore, ma sono sempre la relazione tra temperamento di base e esperienze di vita a determinare un eventuale esito psicopatologico, sembra che una donna che ama troppo abbia fatto esperienza nell’infanzia e nell’adolescenza di un ambiente familiare che, per motivi diversi, non è stato in grado di rispondere a bisogni fondamentali di amore, cura, sicurezza, empatia, accettazione incondizionata, espressione spontanea dei propri bisogni.

Dai traumi con la T maiuscola, come gli abusi fisici e sessuali, alla mancata soddisfazione di bisogni fondamentali di ogni essere umano, nascono da/ sono frutto di un’eccessiva rigidità familiare, dove l’obbedienza alle regole e la punizione severa di fronte alla loro trasgressione, sono uno strumento disciplinare.

Dall’eccessiva rigidità familiare, dove l’obbedienza alle regole e la punizione severa di fronte alla loro trasgressione sono uno strumento disciplinare, possono nascere traumi dovuti alla mancata soddisfazione di bisogni affettivi di ogni essere umano e addirittura, nei casi più estremi, manifestarsi in abusi fisici e sessuali.

Famiglie conflittuali, rifiutanti, o che mostrano atteggiamenti, valori, comportamenti contraddittori di fronte al figlio rendono difficile promuovere in lui la capacità di fare affidamento sulle proprie percezioni e sui propri bisogni e di utilizzarli come guida per fare scelte in linea con i propri desideri. Le esperienze relazionali vissute nelle prime fasi di sviluppo tendono a riproporsi anche nella vita adulta. Dobbiamo affrontarle ed elaborarle, perché se erano utili quando si sono formate in quello specifico contesto familiare, oggi ci rendono schiave di una lotta affannosa senza possibilità di vittoria.

Cosa possiamo fare?

Un percorso terapeutico può essere utile a quelle donne che sistematicamente hanno a che fare con uomini che sembrano non renderle mai felici, per un motivo o per un altro.

Il punto di partenza è scegliere di assumersi delle responsabilità, sviluppando una relazione positiva con se stesse. Nessuno può amarci abbastanza da renderci felici se non amiamo davvero noi stesse, perché quando nel nostro vuoto andiamo cercando l’amore, possiamo trovare solo altro vuoto.

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